sabato 21 gennaio 2012

A MIA MADRE

Ci sono notti che non dormo molto e la mente, il fervido ospizio del pensiero, sempre solerta ad ospitarlo, con congetture e sogni e desideri e timori  ed angoscie e speranze e malinconie, così che, tutte insieme vanno a formare un guazzabuglio che mi fa cadere nel più grande marasma confusionale ma... se io ripenso a mia madre che ora non c'è più, per me  di una sacralità indiscutibile, allora la mente si rasserena e la sua ala protettrice, come nube candida mi condensa nella sua forma dandomi un nuovo respiro. A te mamma che fosti e sarai per sempre il mio rifugio va oggi, come sempre, il flutto più puro della mia anima ed idealizzandoti come madonna torno a pregare la tua benedizione per avere quella pace, serenità e gioia di cui tu fosti sempre mia impareggiabile artefice. E per ringraziarti voglio quì pubblicare qualcuno dei tanti versi che ti ho dedicato perchè tu sei, come stemma indelebile sempre quì nel mio cuore.

La tua impronta così amata, è presente in ogni angolo ed in ogni fiore del giardino, si che tu sei divenuta fior fra fiori,  ed  è,  così tangibile e presente che mi accompagna sempre, mamma. Per l'amore e l'esempio ricevuto  queste immagini di fioriture le dedico  all'immortalità del tuo essere cantato nel mio grido di dolore per la tua  andata via, che qui, per darti eterna gloria, pubblico.




Nel profumo del lillà ho racchiuso la tua essenza, in nuance di eterna  fragranza e, frodando la realtà, l'ho fatta compagna di ogni mia ora e di ogni mio sentire,






























Pensavo di scriverti ancora,
nel piccolo paradiso
ma l'incanto della primavera
stordisce e il tuo pensiero,
per un po', svanisce.
Sole nascosto,
da nube passeggera,
eccolo ritornare,
splendente d'allegria,
a farmi compagnia.


 A MIA MADRE

Come fior fra ortiche
celata mi è la nenia
della tua ninna nanna,
nell'alba del mio fiorire,
veglia al sonno, d'un futuro
ridente, spavaldo guerriero.
Deposte le armi or
m'attardo a rimirar
un volto che mostra,
come papavero fra spighe,
la vermiglia tinta che furoreggia
intorno al mio incedere e m'ammanta
del tuo splendore.


MADRE

Qual pudore ha trattenuto le parole
se mai fui capace
di svelarti il mio amore?
Qual vento contrario
soffiava perché esse
sempre mi morivano
in gola, madre mia?
Qual sgomento per aver
sempre taciuto
quel che provavo!!!
Or che il tempo,
tempio di ogni evento,
ha fatto ritornare
te bambina
s'esplica la tenerezza
che provavi
quando impavida
di ogni sacrificio,
mi cullavi affinché
il sonno allietasse
il mio riposo.
Or, con la mia veglia
mi provo, mamma,
a sussurrartelo un po'
di quel amore e divenire
madre di mia madre,
la cosa più preziosa
che, ad ogni essere nato,
la vita ha regalato.
Come leziose fronde,
la canuta testa,
scuote il vuoto,
di ogni ieri,
stringendo al cuore,
il volto mio,
bagnato di lacrime.


IRRIPETIBILE AFFLATO

Mentre solerte madre
nel solco,
curvata da fatica,
procedeva,
una lercia, ilare monella
come ignara libellula,
danzando andava.
Il caldo respiro,
irripetibile afflato
col creato,
d'un meriggio d'estate,
a tremula memoria
appartiene.
Cercarlo altrove è negato,
nella sperduta,
placida campagna
di quella estate,
giace.
Dove il respiro,
le rampogne, le bonacce,
i passi, le preghiere,
le levatacce,
le brusche maniere,
il levar del sole
che ti baciava in fronte,
il tuo parlare
di antichi proverbi
e della riferente luna,
ininterrotto brusio
alle mie orecchie,
dove sono i passati giorni?
Dove sei indimenticabile amore,
non odi il mio dolore?
Duttile e pur diamante
di luce abbagli
ma, negandoti,
nelle tenebre,
come sperduto
viandante,
fragile vago,
mamma.


PRIMAVERA(a mia madre)

Oh Dio che bello
è tornata primavera.
Ridente, irruente, tersa,
(come i miei acerbi anni)
mi cade addosso,
spargendo polvere d'oro
dai mille rami in fiore.

NATALE 1948

Sei mesi avevo
chi sa in quale culla stavo
e, quante volte,
lei mi donava il suo sorriso.
Non lo saprò mai.
Nessun ricordo,
posso solo immaginare
stanze fredde
di un antico casolare.
Nelle sere invernali
ruvide mani
protese,
al tizzone rovente.
In pupille nere,
la fiamma  brillava,
e rifletteva
ceppo di quercia,
letizia dell'amaro giorno.
Nella casa,
tutto scarseggiava.
D'intorno marzo ancor
non olezzava la campagna
di mandorli in fiore.
Il villano, compagno fiero,
spartiva con baldanza
bacche e semi
con batuffoli di piume.
Ai poverelli, nella sacca
una scorta, un po' di pane,
per lo stentato domani,
avevano donato.
Natale 1948,
nessun lustrino,
rigore e severità
erano le impronte
di quei sconsolati giorni.
Quel tempo, il cui ricordo
palese non serbo,
torno a cercare
fra le pieghe dell'anima
per avere immagine
del tuo viso chino
sulla culla, eterea madre.
Testimone è sol
questo soffio d'amore
che io sento nel mio cuore.

Se io son viva o morta
chi lo può dire
se le apparenze sono
le uniche verità recepite
dall'ariosa folla?


Ed io senza requie,
ancora vado
e mi sorprendo
del muto vagare
mentre il mio cuore,
immobile giace
accanto a te
madre mia.


Una porta, una sola
dinnanzi a me aperta.
Ti sorprendi se richiusa
sudario di morte ho calzato?
madre come hai potuto?


Nulla, ne madre ne figli
mi appartengono
viver bisogna, sol per l'anima,
consunta ed ammaccata.


Uggioso il tempo che accompagna
il tuo funerale mamma ma,
a confronto, con l'uggia del mio cuore
fuori, sembra risplendi,
un caldo sole.
Mi hai fatto sì vigliacca,
che neanche al tuo funerale
sono venuta, smarrita
sosto e penso
le parole, le preghiere
più belle per te, splendida stella.
Come ragno ricucio,
tela di sogni infranti.

Tanto tempo fa ho perduto la mamma,
oggi solo l'involucro di quello che lei era.
Eppure, un rimpianto e un pianto
mi stravolge l'anima.
Non saprò mai perché mi hai lasciata.
Come hai potuto recidere
quel cordone ombelicale
se, sino ai miei cinquant’anni,
tu puerpera ed io neonata,
fra le braccia mi tenevi.
Or, fra le onde e le maree,
della fluttuante vita
lessico misterioso
galleggia e incoerente vaga.
 A me, quaggiù il pianto,
a te che cosa  resta,
pia madre,
nell'oltretomba?
Al ricordo che flagella
s'arrende l'anima
persa nel sordo dolore.


Vocio dalla strada
e il silenzio,
tante volte cercato,
amato, un utopia.
Anche ora,
fa da corollario
al mio dolore
uno stridente rumore.
Che affronto il mondo,
null'altro si cura,
che del suo imperituro divenire.

Nessuno deve sapere,
nessuno deve vedere
la comunione mia
con te mamma.
La folla oltraggiosa
ride, vuote lavagne,
ha smarrito la ragione
e non pensa,
cosa sei tu per me,
mamma.
Non ti ho voluto vedere
statuaria e fredda,
così l'anima struzzo,
ruba ai vermi
ed innalza all'immortalità,
la tua sostanza.

Nelle stinte stanze,
nel letto floreale,
ove per poche ore,
arrendevole, cedevi
tepore al riposo, tu,
spirito amato,
aleggi e ridi.
Dolce mamma
viver ancor per altri,
come tu per me, dovrò
ma, l'essenza mia più profonda
giace o vola sol con te
oh mia perduta luna.

La tua indifferenza
è mostro e sovrasta
ed  io passerotto
nell'antro più ascoso
mi ritiro evitandola.
Perire per essa
non vorrei ma,
purtroppo già sta accadendo.
Come hai potuto farmi questo?

Cosa mai ho idolatrato
nella mia ingenua vita
un angelo o un demone?
Cosa a frapporsi, sempre,
fra noi e la felicità?

Corro fra le nubi a cercare
la familiare strada della felicità
ma a percorrerla, senza te non ha senso.
Mi celo in un boschetto di lillà
e penso, forse di questo profumo
l'anima mia rifiorirà.
Attendo. Il tempo che, ormai,
mi appartiene e solo questo.

Cos'è che fa infelice
il pozzo
forse il secchio
che avido di sete
lo prosciuga come sanguisuga?
Cos'è che fa infelice il grano,
forse l'infestante che soffoca,
di pletorica aderenza, lo stelo
biondo che al sole si protende?
Cos'è che fa infelice
il cuore l'immaginare
di averti ancora mio tepore
mentre falce scura,
incurante di paura,
terrorizza ogni mio pensiero.
Non oso pensare,
per non morire anch'io,
mia amata congettura
a quel corpo, tante volte
carezzato,
senza respiro.


Se potessi alle cose
dare un giusto valore
vorrei un bilancino
capace di pesare
una piuma o la schiuma
di un ringhiante mare.
Come contrappeso,
un anima leggera
per non sprofondare
in questa straziante pena.


Del tuo perpetuo moto
ne è or priva la casa.
Tutto rimane immobile.
La scopa nello stanzino,
le pentole nell'acquaio.
Mi manca il tuo instancabile
fare o ape operaia.
A passeggio fra nubi
con te voglio andare.
Gocce di lacrime
su arse bocche,
dove amore
non si è mai posato,
conte io verserò
mia dolce madre.

Fraudolente la sorte
gaudente la morte
che ha rubato,
al mio respiro,
il tuo respiro,
soave madre.

Un miraggio,
il sol che io vedo
fra desertiche dune.
da figura rattrappita
e viso raggrinzito,
il sorriso tuo madre
prigioniero di un sogno
sfuggito, alla bastarda vita.

Tulipani, anemoni,
narcisi, la mimosa
già sfiorita. In questo
preludio di primavera
mamma tu sei andata via.

Mamma per quello che è stato
nessun pentimento,
per quello che avrei voluto fosse,
qual rimpianto.


Incredibile creatura,
a volte scura,
incredibilmente desta
qual paura
lo scorcio dei giorni
che mi restano da percorrere
senza il tuo vigile sguardo
a fianco.


Piccola come
Maria Teresa di Calcutta.
Il fare e il dare
la sua impronta digitale.
Nel baule i merletti
giacciono a ricordare
fra candide lenzuola
l'indefessa volontà
d'essere superba madre.
Oh madre mia
lo capivo  già d'allora
ma ora, nel tuo pallore,
sta impresso l'amore
che nella provata esistenza
tu hai donato,
mia infaticabile madre.


Se potessi rubare
al sole un po' del suo calore
potrei rianimare
le gelide gote
del fuggitivo colore.
Potrei serrarti di nuovo
al cuore sottraendo
all'infingarda,
la tua sorte,
insostituibile madre.


Novant'anni.
Qualcuno mente,
il tempo mio con te
è volato così in fretta
sì da sembrar trascorse
solo nove ore.
Un battito d'ali
nel divenir del tempo.
Che parsimonia il realizzato,
infinitesimale parte
della legenda che avevo stilato.


Intrappolata nell'inganno
dell'orgoglio,
la paura,
d'essere stata volutamente
abbandonata
non mi ha permesso madre mia,
d'essere al tuo capezzale.

Mamma ricordi
quante volte,
dinnanzi alla morte,
hai placato il mio terrore.
Tu tenera e forte
ed io coniglio fuggitivo,
delle estreme realtà,
ti ho lasciata andare
senza un addio,
madre,
solo tu puoi capire.


Qui fra le vecchie mura,
scrivendoti, ho ucciso
la paura della terribile sovrana,
affidando il nostro indelebile
trascorso, all'eternità.


Lei che teneramente amavi,
capendola, come  sua madre
ne fu capace mai,
spavalda messaggera
in omelia, il mio ultimo
saluto ti ha sussurrato.
Madre mia, quanto ti ho amato
ma, il coraggio mi è mancato
però so già che mi hai perdonata
perché a sostituirmi, gradita
ospite, ti ho inviata.


Mamma ti rivedo
quando sbirciando
al di là della vetrata
sul viso si dipingeva,
mista a sorriso represso,
la sgridata.
Mentr'io mi perdevo
dietro sogni di pittura
mi dicevi e l'una,
va a dormire.
Ah quel tempo andato
mio e tuo insieme
spazzato, non so dove,
da chi, da cosa.
Misera la vita che prende
e da, senza preavviso.
Ed io son orfana
di ogni amato bene.

Pica di strani
miei  momenti,
passati a crucciarmi
eri, negli anni bui
fiaccola di sogni.
Fra coperte, piatti
e merletti, che festa
per la casa, quando
di qua e di là
sfaccendavi.
Donna di coraggio,
il borbottio al vento
non ti apparteneva
ma....per esso,
nel tenue sottofondo,
confusa, smarriva
la spensieratezza
dei verdi anni.


Ti ricordi la magrezza,
le estremità intirizzite
e per queste,
nelle nottate gelide d'inverno
correvo nel tuo letto
e, nel contatto, un brivido,
un grido, indietreggiavo
raggomitolandomi
come feto,
in amniotico mondo,
su me stessa.
Giungeva  lesto,
l'atto sacrificale,
mi sussurravi,
dai, vieni qui vicino.
Son passati gli anni, tanti.
Le minute forme
che amor commiserava,
di molle ciccia
sono ora rivestite,
freddo più non sentono
ma il gelo del cuore
avvampa,
mia divelta radice.
Fragili diramazioni,
non danno alcun tepore
mio perduto amore.

Io voglio tornare a quel tempo
quando il domani ti aveva innanzi.
Io voglio tornare a quel tempo
quando c'era un tornado
a corrermi incontro.
Il buono, il bello, il sapiente
non vi è traccia nel niente.
Briciole carpite
al quotidiano
i rari pensieri
della silente sera
che recano in seno
il sogno d'averti
ancora accanto.
Frodo, per andare avanti.


La libido dell'amore
è una seconda pelle,
difficilmente squama,
son certa che mi ama?
Rivestita di spumeggiante,
lussurioso orgoglio
mi ha intristito l'anima.
D'un tratto, la mia
solarità, era sconosciuta.
Miserevole fine l'idillio
di tanti anni.
Pagliacce estranee,
in diversa dimora,
sospiriamo.
Io tremo a dirlo e tu?


Vorrei dialogare con te
ma... non mi è
più permesso.
La luna,
satellitare astro,
guarda.
Sbiadisce nel freddo
pallore, la loquacità.

Affaccendata ancora
ti colse l'iniqua.
Solo l'ultimo respiro,
all'ozio, mia reliquia,
hai dovuto concedere.
La fatica,
irripetibile marea,
la stella lattea
che ha guidato i tuoi passi.


Mamma, molecola smarrita,
fra le pieghe dell'onda
che spumeggia sulla roccia
hai perduto la tua identità.
Sogno mio svanito,
che volto dare
al tempo che rimane?

Mentre lei schiudeva
le gemme smeraldine
ai tiepidi raggi,
indifferente alla magia,
tu posavi le membra
all'eterno riposo
madre meravigliosa.
Incanto svanito.
Pennello di dolore
tinge ora il volto
della generosa.
Come sipario, separa
e reca impronta,
fra le pieghe,
dell'attimo rubato
alla giostrante indifferenza.


Punzecchiano,
come tediose mosche,
i raggi mattutini
gli assonnati lumi.
Esser desta per cosa,
se altro, che mi é indifferente,
 intorno a me, vortica.


I desti sensi
non percepiscono
i tuoi passi.
Senso più intenso,
la memoria, ovatta
ancora, del tuo profumo.


Il nove di aprile era il compleanno di papà.
Tu lo pensavi un poco, nessun pensiero
suo al tuo, data dai più dimenticata:
"diciotto dicembre 1913"
L'alba in cui sei nata, tigre di Malesia,
spavalda madre.


Nel bosco silente
udir solo il rumor
dei passi e...
l'angoscia prende.
Nel rumoroso via vai
della città, anche
l'ultimo pensiero,
come cane frastornato,
è fuggito via.
Sosto e penso
vivo e mento.
Perché io sono
se ho perduto l'ombra?

Ero io sì buona
o tu santa, se mai
alzasti un dito
per rampogna.
Dove vivo ora
le mani vanno
ho cani alle calcagna.
Te ne sei andata,
tacendomi il tuo segreto,
ed ora, al contrario di te,
sono disperata madre.


Mamma,
lì nel cimitero
speravo le pietre
mi parlassero di te.
Un sospiro, un bisbiglio,
nulla. Tutto taceva.
Fra esse, nascosta stavi
ma, nessun parlava.
Mesta, quasi fuggendo,
andai fra orbe mura
fra me e me a parlare
del presente, del passato,
dell'infinito tempo che ci appartiene.


Trenta marzo 2004
Ho deciso di cogliere un fiore,
una fresia e, fra fogli bianchi,
serberò nell'odorosa essenza,
i pensieri dedicati a te,
perduta madre.

Adesso tu riposi
ma la tua anima
riposa anch'essa
nell'umile sepoltura?
Oh mia antica natura
tumulandoti
congetture
vo' farneticando.


Meditare, senza trovare
breccia al perché delle cose.
Siamo e poi andiamo
la memoria trattiene
solo le parole non dette.
Passi vuoti cadono,
tristemente,
sull'asfalto bagnato,
recando in seno la pena.


Cos'è che olezza intorno,
se del tempo andato, amato
o sol rimpianto,
forse le adorate carte
ove i pensieri,
come grani di perla,
brillano nella notte nera
o la tua presenza
fra le mura avite
da dove tu, mitica
non sei, mai partita.
Così sono ancora
in buona compagnia
a sbrigar le ore.


La memoria reca una
sola bandiera a vessillo
la tua esistenza mamma.
Miriade di parole
nel pozzo dell'amore
per te vorrei pescare
ma l'arsa stagione
l'ha fatto prosciugare.
Mi sono rivolto al mare,
inutile abbondanza ho pescato,
solo perle amare
incapaci di tradurre
quello che io provo per te mamma.


I vivi ricordi sono
fiori gaudenti
delle morte cose,
ci rammentano
d'essere stati
e per essi
d'essere ancora
come avventizie lune
nei suoi quattro quarti.


E' sera,
ad altri, dilettano
altre cose,
a me, solo il tuo pensiero
mi fa buona compagnia.
E' notte,
sprofondati nel sonno,
altri, dormono.
Fatalmente sola,
rammento e piango.


Un uccellino,
posatosi sul pino
rendeva men sola,
la mia inerte ora.
Lo guardai,
un frullio d'ali,
d'un tratto
nell'immensità del cielo,
era sparito.
L'aveva ferito
il senso mal celato,
della mia smarrita attesa.


La sagacia, l'orgoglio
l'ambizione, l'indomita audacia,
la volontà sovrana.
Tessere, cucire, rammendare,
lavare, rigovernare, ammazzare
le oche tonde e grasse.
Cucinare, correre giù
nei campi a rifocillare
gli uomini abbruttiti
dal sole e la fatica.
mamma, nella miseria
tu andavi altera.
Nulla ti pesava di quel regno
tanto greve.
Ti sorreggeva
il fianco appesantito,
dal deformante ingombro,
l'immaginare il suo sorriso
e, in quel mare d'amore
che dal tuo cuore sgorgava,
tutto nuotava pago.
Scolorita cartolina
nell'era dei videogame
ma, nel ricordo resta
il sogno più caro
della mia vita.


Due parole
vivere, morire,
indivisibilmente
agli onori degli altari,
entrambe, le portasti.
L'eterno moto
chi l'ha spezzato,
a pensarci, divento matta.
A pensarci m' accorgo
e dico che inutile fatica
la vita se, al suo volere,
anche l'indomita si è arresa.



Nessuna remora.
Parole lievi,
dai taciuti
verecondi pensieri,
sussurrando vado.
Ti dirò dei prati
tappeti smeraldini
ove i passi affondano
senza alcun rumore;
delle gocce di pioggia,
sensuali libagioni
per le assetate bocche,
raccolte in canestri di vimini.
In atemporale spazio, vago.
Ti leggerò
le mie pagine migliori
ove nessun lume
ha posato il suo bagliore.
Anche se il taciuto ha,
ora, sapore di sale, amaro,
ti voglio confessare
quanto ti ho amato.


Nel vento del deserto,
con la sabbia negli occhi,
in bocca, nelle orecchie,
fra il fluir del sangue nelle vene,
scorre la malinconia d'essere
ancora sferzata da te, madre mia.


Tutto va.
Passi frettolosi sul selciato,
automobili in coda,
sull'asfalto bagnato.
Raccolgo,
da un canestro di giunco,
i pensieri che non hanno
lo stemma del reale,
abbozzi di un misterioso senso
che da al mio essere
modo di esistere.


Sola con i miei pensieri,
sola a respirare,
perdutamente sola
nella notte volo
accanto, al mio tormento,
al mio rimpianto.


E'  notte, una fioca luce
a farmi compagnia.
Un monotono borbottio
la televisione. La strada
in lontananza a ricordarmi
che io son viva, per quanto,
se niente più, di questo rimestio,
muove i miei pensieri.
Un tarlo,
sfaccendato bugiardo,
nei miei tempi immoti
mi urla è morta.

Ora siamo io e l'assenza
a soccombere al sonno
in tabernacolo di cristallo,
foderato di seta color smeraldo
l'idea di averti, sempre mia,
smarrita poesia, è impaludata.
Tela di ragno la trattiene.
Oltre i monti, oltre il mare,
pende il vuoto dei miei futuri anni.


Ah mare, ah dolce dondolare,
al calar del sole.
Al di là del confine,
fra nebbie dense di mistero,
mi attende, sola
e rende la prigionia mia, più lieta.


Per strade mai percorse,
fra orti, valli e siepi,
come cinciallegre
per sempre, con te volare
ma,
nella stanzetta vuota,
che tanti tuoi respiri
accolse, sola,
sospiro e piango,
madre mia.

Mi rammarico,
ma a che serve farlo
se tu hai deciso,
forte e volitiva come eri
di fuggir via
lasciandomi qui,
inchiodata alla mia pena.


Le braccia sfinite e stanche
ancora cullavano,
incuranti,
dei tuoi novant'anni
i pronipoti.
A loro donavi
un sorriso o un rimbrotto,
come la più tenera delle madri.
Badando ai pargoletti,
nonostante i tuoi anni,
ricalcavi, incurante, l'impronta
dell'amata nonna Filomena.
Dolcemente ti spegnevi.


Mio lume e mia disperazione
nessun pianto, sulla tua tomba
mi è parso vuoto di significato
farlo.
Nella mente mia,
a dispetto della beffarda nemica,
ingigantisci e vivi.


L'amore per il tuo sposo,
per l'allegra nidiata
era incenso che ti avvolgeva
in un limbo senza peccato.
I dolori, la fatica,
le rinunce, le ortiche,
nulla ha scalfito
il graffito del tuo cuore.
Dare alla vita
un unico senso,
amare sempre.


Apparivi,
nella tua minuta
curva figura,
fragile
ma, nessun ostacolo
ti fermava.
Come prode cavaliere
in groppa a focoso destriero,
giù a cavalcare nella pianura del volere.
Per altri il mondo,
per te, solo un misero
tozzo di pane bagnato.
Irripetibile, grande madre.


Addio,
addio madre mia.
Nel tedio del vuoto
rimembro e vivo
ancor di te,
mia perduta primavera.
Restar non posso.
Al brulicante fare,
impietosa, lei  chiama.
Devo andare e donare,
come tu l' hai donato a me,
la gioia del vivere sereno:
un piatto, un letto
ed una parola buona.



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